IL CULTO A CIBELE IN ROMA… ALLA MATER MAGNA…LA MAGISTRA…LA PRIMA DONNA…EVA…LA PRIMA ADULTERA…LA MADRE DI TUTTI I VIVENTI…LA MATRIX..LA GRANDE DEI ED I SUOI SACERDOTI…..LA CHIESA ROMAMA…LA SPOSA DELL’ANTICRISTO…LA GRANDE MERETRICE E LE SUE FIGLIE…. FONTE: http://www.centrostudilaruna.it/misteri-cibele-attis-2.html L’ ingresso del culto in Roma. L’introduzione del culto della dea Cibele a Roma, il 4 aprile del 204 a.C., ci è narrata dallo storico Tito Livio che così si esprime.
Liv. XXIX 10, 4.-5.8;14, 11-14. “In quel periodo all’improvviso una forma di panico superstizioso aveva invaso Roma: quell’anno con eccessiva frequenza piovvero pietre dal cielo e in seguito all’esame dei libri Sibillini si trovò un vaticinio secondo il quale, quando un nemico esterno avesse portato guerra in Italia, sarebbe stato possibile cacciarlo e vincerlo se si fosse fatta giungere a Roma da Pessinunte la madre Idea… Quindi, per poter fruire quanto prima di quella vittoria che pronosticavano fati, presagi e oracoli, si cominciò a riflettere sul modo di trasferire a Roma la dea… La nave raggiunse le foci del fiume Tevere; (Scipione) secondo l’ordine ricevuto, spintosi in mare su una imbarcazione, ricevette dai sacerdoti la dea e la trasportò a terra. Le più insigni matrone della città… la accolsero … Esse si passarono la dea di mano in mano una dopo l’altra; intanto l’intera città si era slanciata loro incontro; davanti alle porte delle case dove la dea veniva fatta passare furono collocati dei turiboli dove fu fatto bruciare l’incenso, mentre si pregava la dea di entrare nella città di Roma di sua volontà e propizia. Il dodici aprile la dea fu portata nel tempio della Vittoria che si trova sul Palatino. La giornata fu proclamata festiva. Il popolo in massa recò doni alla dea sul Palatino ed ebbero luogo un lettisternio e dei ludi, detti Megalesia” .
Dal racconto liviano si evincono numerosi elementi di valutazione. Anzitutto, l’invasione annibalica vista come manifestazione storica, terrena, di un turbamento della pax deorum, dell’armonico rapporto con le divinità che l’uomo deve curare secondo un sentimento religioso di pietas, di sentito e scrupoloso adempimenti dei doveri religiosi, di collegamento (religio viene da re-ligare = collegare) coi Numi, tant’è che il Senato avverte la necessità di consultare i Libri Sibillini, ossia i testi oracolari per rinvenirvi una predizione adatta alla situazione di quel momento.
Cibele è inoltre collegata strettamente alla Vittoria, poiché il suo ingresso in Roma è concepito e creduto quale garanzia e segno di vittoria militare su Annibale; in ciò deve vedersi una esplicazione della concezione religiosa romana che prevedeva la necessità di propiziarsi le divinità straniere e, più specificamente, quelle del nemico. La Magna Mater, come la dea viene appellata, è una divinità tipica di molte popolazioni del bacino orientale del Mediterraneo e quando i Frigi giunsero nella penisola anatolica, il culto era già presente ma venne reinterpretato secondo la sensibilità religiosa del nuovo popolo. Cartagine era la potenza egemone nel Mediterraneo, la sua religione dava uno spiccato risalto alle divinità femminili (si pensi, ad esempio, al culto di Astarte) e questo spiega la logica sottesa al responso dei Libri Sibillini ed alla decisione del Senato circa l’accoglimento della dea Cibele in Roma. Si noti che nel racconto liviano la dea fa tutt’uno con la sua statua; accogliere la statua è accogliere la dea, poiché si riteneva che la statua consacrata fosse impregnata della presenza di quella divinità. Significativo è, peraltro, il risalto dato nel racconto – e nelle fonti dell’annalistica romana alle quali Tito Livio attinse – alla presenza ed al ruolo delle matrone romane, a sottolineare l’importanza che anche Roma riconosceva al ruolo sacerdotale delle donne, in un diverso contesto culturale e sociale, fondato sulla figura centrale e preminente del pater familias e sulla esclusività del ruolo pubblico degli uomini, sebbene poi, nella storia di Roma, le donne compaiano puntualmente in tutti i momenti cruciali e di crisi, svolgendo una funzione di mediazione sociale o religiosa, come appunto in questo caso, in cui le matrone sono in primo piano nell’atto di accogliere la dea straniera. Il Senato, reputando che l’esuberanza rituale di questo culto fosse troppo lontana dal severo ed austero costume religioso romano – ricordiamo che siamo in periodo repubblicano, nel pieno della guerra annibalica – proibì ai cittadini romani di partecipare ai rituali del culto e, ancor di più, di diventarne sacerdoti. Col tempo il culto si andò amalgamando col diverso clima culturale romano e l’imperatore Claudio, nel I secolo d.C., conferì alla Magna Mater una posizione di privilegio, per cui, a quel punto, le interdizioni disposte secoli addietro non ebbero più senso, tanto più che le confraternite di cultores della Magna Mater accettarono volentieri le norme di disciplina religiosa stabilite dallo Stato per rendere il culto più adatto alla sensibilità religiosa romana che, nel frattempo, era stata ampiamente impregnata di apporti religiosi stranieri, greci, egizi, persiani o comunque ellenistici. La romanizzazione del culto della Mater Magna. La regola più importante di tale disciplina rituale d’età imperiale fu la sostituzione dell’evirazione col sacrificio, offerto alla dea, dei genitali del toro sacrificato (taurobolium). In virtù di tale innovazione anche i cittadini romani entrarono a far parte del sacerdozio della dea sia come Arcigalli (qualificati nelle iscrizioni come Antistites sacrorum, sacerdotes maximi, sanctissimi), sia come semplici sacerdoti. Sotto questo aspetto, il culto romanizzato della Dea presenta affinità col rituale mitriaco della tauromachìa, benché le più recenti acquisizioni inducano a ritenere che nel mitraismo il sacrificio di sangue dell’animale riguardasse solo i gradi minori della gerarchia mitriaca. Gli Arcigalli venivano reclutati fra le persone più facoltose di un dato municipio o di una data colonia e la loro carica era confermata dal senato municipale e convalidata dal collegio sacerdotale dei Quindecemviri, che in Roma sovrintendeva ai culti stranieri. La nomina di questi sacerdoti era vitalizia e li obbligava alla residenza nel luogo ove si esercitava la loro giurisdizione religiosa; essi avevano la funzione primaria di compiere i vaticinii – ossia interpretare la volontà della Dea Madre sia nelle grandi feste di marzo sia in circostanze speciali nelle quali venivano consultati – nonché di celebrare i sacrifici del toro (taurobolii) per il bene di Roma e dell’Impero. I sacerdoti semplici venivano scelti nell’ambito dei liberti, ossia gli ex schiavi emancipati, com’è attestato ampiamente dalla documentazione epigrafica d’età imperiale. La loro nomina non era vitalizia e non era affatto incompatibile con altre cariche sacerdotali relative ad altri culti; ciò li poneva in contatto coi sacerdoti ufficiali dell’Impero (pontefici, flamini, auguri) a dimostrazione del sincretismo religioso d’età imperiale. La seconda regola fu la subordinazione del sacerdozio metroaco al collegio dei Quindecemviri che oltre alla funzione di sorveglianza già detta sui culti stranieri, ebbe ad occuparsi in modo particolare di questo culto, tenuto conto dell’importanza e della solennità ufficiale della sua introduzione in Roma. Un’iscrizione rinvenuta a Cuma (CIL, X, 3698) ci tramanda un pubblico diploma col quale i Quindecemviri ratificavano le nomine del sacerdozio di Cibele fatte in un municipio. I Quindecemviri assistevano alle feste di marzo in onore della dea quali rappresentanti della città ma non entravano mai nelle relazioni di culto fra la Dea ed i suoi fedeli. Il culto della Mater Magna prevedeva il sacerdozio femminile; le donne avevano il compito di preparare i candidati ai Misteri, candidati che esse nutrivano col miele della pura dottrina, sì da ricevere il titolo di Api (Melissae). Esse disponevano i i seggi per l’introduzione dei mysti (i nuovi adepti), preparavano il letto funebre di Attis ed il talamo delle nozze sacre dopo la resurrezione del dio, predisponevano le immagini sacre e curavano la manutenzione degli arredi sacri. La prima sacerdotessa del tempio di Cibele in Roma è la prima delle ancelle della Grande Madre, ma non ha parità di rango con l’Arcigallo. La musica rituale ed il sacerdozio metroaco. Il rituale della Dea prevedeva un largo uso della musica rituale, al fine di propiziare particolari stati emotivi nel fedele; nelle loro origini arcaiche tali riti avevano i caratteri già visti nel mito: la frenesia, il delirio, l’estasi, unitamente ad una musica capace di suscitare uno stato di trance. Probabilmente anche lo stile musicale, pur conservando tratti gioiosi ed esuberanti, venne modificato presso i Romani; si adoperavano strumenti musicali quali il flauto diritto (tibia) che dava un suono acuto e stridulo, ed il flauto ricurvo (keras) che dava un suono rauco lugubre, adoperati rispettivamente nel giorno di Hilaria – la festa della letizia per la resurrezione di Attis – ed in quello della sepoltura del dio. Altri strumenti musicali erano i cembali che davano un suono acuto e forte (in consonanza con quello della tibia) ed i timpani che producevano una sonorità grave corrispondente al suono del flauto ricurvo. In tutto ciò può vedersi un’affinità col rituale dionisiaco, che rievocava e riattualizzava il mito dello smembramento e della ricomposizione del dio, con l’alternanza del dolore e dell’esultanza, del lutto e della gioia estatica. Il clima psichico, estatico ed esuberante, del rituale metroaco ci è descritto in modo suggestivo nei versi di Catullo (63,1-36):
“…Bando agli indugi pigri del pensiero: correte insieme, seguitemi al tempio frigio di Cibele, ai boschi frigi della dea, dove risuona la voce dei cembali, dove rimbombano i timpani, dove il flautista frigio emette cupi suoni dalla canna ricurva, dove le Menadi coronate d’edera agitano con forza il capo, dove esse celebrano le sacre orge con squillanti ululati, dove di solito volteggia l’errabondo corteo della dea, dove ci conviene andare veloci con impetuose danze”
Per la celebrazione della fastosa e complessa liturgia, nell’Impero si costituirono confraternite di laici che partecipavano all’uno o all’altro dei rituali. I Cannophori partecipavano alla processione del 15 marzo (Canna intrat) e venivano reclutati negli strati popolari senza distinzione di sesso né di età; essi avevano lo stesso modello statutario ed organizzativo degli altri collegia cultorum che gremivano l’Impero, con un luogo di sepoltura per i confratelli (come accade ancor oggi per le Arciconfraternite cattoliche) ed un luogo di riunione per il culto. La loro funzione è verosimilmente connessa all’aspetto pubblico, exoterico del culto. I Dendrophori partecipavano ufficialmente al rituale del 22 marzo (Arbor intrat) e venivano reclutati fra persone facoltose, soprattutto fra i commercianti di legname; le loro associazioni sono attestate dalle iscrizioni soprattutto nei centri marittimi e commerciali dell’Impero. La loro funzione era quella di garantire un adeguato supporto economico per la continuità del culto e si colloca comunque nel profilo esterno, exoterico, del culto stesso. Le ricorrenze calendariali : Attis e l’Equinozio di primavera. Il calendario romano (CIL,I, p.312) colloca nel mese di marzo le celebrazioni di Cibele, fra le Idi, l’Equinozio di primavera ed i giorni immediatamente successivi. Ciò ha indotto gli studiosi di una certa epoca, nella prima metà del Novecento, a leggere il culto nei termini di un culto agrario, di una allusione simbolica alla vicenda delle stagioni, al fiorire della primavera, alla fecondità della terra. In ciò vi è del vero, purché si abbia chiaro che la percezione e la concezione che l’uomo antico aveva della natura era diversa da quella dell’uomo moderno; la natura era espressione sensibile del sovrasensibile, manifestazione del sacro, vissuto come Trascendenza immanente, come una sacralità che si cala nel mondo della manifestazione e nella stessa quotidianità dell’uomo. Peraltro, sul piano più propriamente misterico, ossia delle conoscenze appannaggio delle élites sacerdotali e degli iniziati, le vicende di questa ierofania della natura erano concepite come supporto per propiziare analoghi processi di trasformazione interiore, secondo quella assonanza fra microcosmo e macrocosmo che ritroveremo, più tardi, esplicitata in epoca rinascimentale nel Corpus Hermeticum. Il risveglio primaverile della natura era associato dunque ad un manifestarsi ed esteriorizzarsi di quel principio interiore, di quella scintilla spirituale che, coltivata nel proprio intimo durante l’autunno e trasformata col solstizio invernale, veniva ora a maturazione. La sequenza liturgica partiva dall’ingresso del giunco (Canna intrat) il 15 marzo, che simboleggiava la nascita di Attis, passando poi all’ingresso dell’albero (Arbor intrat) il 22 marzo, del pino consacrato che simboleggiava Attis defunto, variante del simbolismo universale dell’albero come “Axis Mundi”. Il pino veniva portato in processione al tempio di Cibele sul Palatino dove veniva esposto alla venerazione dei fedeli, come una salma prima della sepoltura. Intorno al pino-Attis risuonavano le lamentazioni funebri, che riattualizzavano l’evento mitico della morte del dio. Il compianto funebre raggiungeva il parossismo il 24 marzo, giorno della sepoltura del pino e celebrazione del Sangue; i Galli si flagellavano a sangue le braccia, si percuotevano il petto; il sangue offerto alla Dea, l’offerta sacrificale del principio vitale che esso rappresentava era un atto di fecondità, interiore ed esteriore. Sul piano interiore, offrire il sangue voleva dire compiere un dono alla dea per riceverne protezione, ossia per riarmonizzarsi col Principio femminile, visto come principio tellurico-materno. Sotto l’aspetto esteriore, era un atto inteso a propiziare la fecondità della natura. Seguiva poi la sepoltura del pino-Attis, la veglia funebre notturna con relative lamentazioni rituali, cui subentrava poi l’annuncio del sacerdote “Confidate, o iniziati, nel dio che si è salvato, poiché anche a voi ne verrà la salvezza dai dolori ”. Era l’annuncio della resurrezione del dio che preludeva alla festa Hilaria del 25 marzo, giorno della letizia che, secondo l’astronomia antica, era il primo giorno più lungo della notte, quindi giorno e festa della luce, del sole e della primavera. Durante la festa Hilaria, si svolgeva una solenne, fastosa e rumorosa processione in cui la statua della Madre era portata su una quadriga avendo al fianco Attis, di cui si esaltava il matrimonio sacro con Cibele. Alla Letizia seguiva il Riposo (Requietio) giorno sul quale, stranamente, diversi storici delle religioni non hanno nulla da dire, neppure una parola di commento. Orbene, se un giorno di riposo è inserito nella sequenza cultuale di un ciclo liturgico, vuol dire che esso ha una preciso significato ed una precisa rilevanza religiosa. Il Riposo è il momento del raccoglimento, del silenzio interiore ed esteriore, quello in cui si interiorizza il senso di tutta la esperienza religiosa precedente, con la sua vicenda di morte e rinascita; è il giorno in cui si personalizza il senso del rinnovamento, si assimila tutta la valenza del ciclo di Attis in tutte le sue sfumature. Il ciclo di Attis terminava poi col giorno della Lavatio, la purificazione della statua della Dea – che recava nel capo la pietra nera, simbolo universale, presente in tante tradizioni, con significati di stabilità spirituale e di centralità metafisica – e coi Ludi sacri nel Circo il 28 marzo. Considerazioni conclusive La vicenda di morte e rinascita del dio, comune a vari Misteri (Demetra, Cibele, Dioniso, Osiride) ci induce a riflettere su un punto: il mondo antico polarizzò la sua attenzione sui processi di trasformazione nel senso dell’unione dell’uomo col divino, per cui tutte le sue energie e facoltà venivano orientate sacralmente, persino la scompostezza emotiva, il furore, l’estasi; tutto era supporto per avvicinarsi al Sacro, al “più che umano”. Gli Antichi conoscevano benissimo le pulsioni inferiori dell’uomo, ma le utilizzavano trasfigurandole, sublimandole, dando loro una diversa orientazione “verso l’alto”. Oggi, nel mondo della secolarizzazione, mancando questi riferimenti sacrali, sempre meno sentiti nella coscienza collettiva, è aperta la strada per l’irruzione dell’elementare, delle spinte brute ed istintive, che si manifestano nella vita privata come in quella pubblica, con problematici fenomeni sociali. Ancora una volta, la saggezza antica ci è di monito come lezione esistenziale. Evidenti sono poi le analogie della liturgia di Attis con quella cristiana della Pasqua, dal “giovedi santo” alla domenica, dai Sepolcri alla morte di Cristo alla resurrezione. In effetti il cristianesimo ci appare come una versione popolarizzata, divulgativa, aperta a tutti (e quindi livellata poiché esclude tutta la dimensione esoterica) di un iter misterico i cui tratti affondano le loro radici nel paganesimo misterico greco-romano che, sotto certi aspetti, non è affatto scomparso, ma vive sotto altre sembianze. Nel leggere le notizie del Calendario Filocaliano sul giorno del “Sangue” e i commenti della letteratura in materia, venivano alla mente le scene dei “battenti” di Guardia Sanframondi o la emotività e la frenesia dei fedeli della Madonna dell’Arco nelle adiacenze di Napoli….